di Simonetta Ottone • Dopo l'assoluzione per lo stupro di gruppo della Fortezza da Basso, la ragazza che denunciò scrive e diffonde una toccante lettera. Loro giustificati, lei biasimata.
Eppure ci sono referti medici e prove che attestano la subita aggressione e le modalità riportate nella denuncia. Ma la sentenza sembra archiviare la possibilità, per chi denuncia, di ricevere un trattamento "in scienza e coscienza", come amano definire i Giudici il proprio lavoro.
Eppure ci sono referti medici e prove che attestano la subita aggressione e le modalità riportate nella denuncia. Ma la sentenza sembra archiviare la possibilità, per chi denuncia, di ricevere un trattamento "in scienza e coscienza", come amano definire i Giudici il proprio lavoro.
Mi domando cosa sia veramente la violenza, perché si
rafforzi con una cultura giuridica che rasenta l'inflittivo per le vittime,
perché non si riesca a difenderle degnamente, non si solidarizzi almeno il
dovuto, con loro.
Mi torna in mente Sara, e il suo lavoro a tutto campo nella
violenza: una donna magra, lunga, delicata, occhi scuri e
timidi, dietro i grandi occhiali. Ha lavorato in un
Comune della costa tirrenica su più aree del disagio; inizia a occuparsi di
violenza di genere quando in zona si costituiscono la rete antiviolenza e in
seguito il codice rosa.
Si costruisce giorno dopo giorno il lavoro in
rete con Procura, Forze dell'Ordine, Ospedale, avvengono grossi cambiamenti.
Parlammo a lungo, un bel pomeriggio di qualche tempo fa. Mi
parlò del Decreto Letta con queste parole: Questa Legge ha
introdotto cose importanti: è previsto
l’arresto della persona maltrattante colta in flagranza (difficile che
avvenga però!), e l’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare di chi ha agito violenza, un
inasprimento delle pene, delle aggravanti ad esempio in caso di violenza
assistita o se a subire una violenza è una donna in gravidanza. E ancora la possibilità del
gratuito patrocinio, la possibilità di mantenere segreta l’identità di chi fa
una segnalazione.
Credo sia importante che la persona che fa querela lo
faccia in modo consapevole, non vada spinta. Questa decisione deve scaturire da una maturazione profonda.
Solo così si riducono le possibilità che la vittima ritorni sui suoi passi;
nel corso della mia esperienza ho incontrato donne che hanno cambiato idea che
hanno deciso di tornare con il proprio partner anche a fronte di un
provvedimento di allontanamento dalla casa familiare della persona
maltrattante. In questo senso, compito dei servizi è accompagnare la
vittima in questo difficile percorso di uscita dalla violenza rispettando i
suoi tempi interiori e soprattutto potenziando il suo senso di autostima e
valorizzando le sue risorse personali che spesso dimentica di avere. Solo nel momento in cui si sente più sicura di sé, solo nel
momento in cui riconosce e dà voce al proprio valore, solo allora può uscire
dalla confusione in cui è immersa, vedere la realtà con più lucidità e iniziare
a intravedere possibili alternative a una vita fatta di relazioni violente.
Un’altra difficoltà che spesso incontriamo è legata a
situazioni dove i reati che si configurano sono perseguibili d’ufficio. In
questi casi noi operatori del servizio pubblico abbiamo l’obbligo di segnalare
all’autorità giudiziaria. Non sempre in questi casi è facile prendere una
decisione soprattutto se la vittima che abbiamo di fronte non è pronta a
sostenere tutto ciò che può comportare una denuncia o se quella scelta di cui
parlavo sopra non è ancora stata maturata dentro di sé. La mia risposta per affrontare tale difficoltà è la
condivisione con il gruppo di lavoro costituito da tutti gli operatori
coinvolti su quella specifica situazione che possono essere ad esempio
psicologi/ghe interni all’asl o delle associazioni presenti sul territorio
medici specialisti, referenti delle forze dell’ordine, e della magistratura.
Un’altra criticità è sicuramente legata alle scarse
risorse che sono messe a disposizione per sostenere i percorsi di uscita dalla
violenza. Un aspetto molto importante quando siamo di fronte a persone che vivono in un contesto di
violenza è poter offrire loro delle alternative per poterle mettere nella
condizione di scegliere. Spesso, però l’alternativa è rappresentata nella
maggior parte dei casi da difficoltà economiche, dalla difficoltà di trovare
lavoro, di trovare un nuovo alloggio e sostenere le spese ecc. Queste
difficoltà nel quotidiano rendono tutto ancora più faticoso e ostacolano il
cambiamento.
Un'altra pecca del
Decreto Letta è che per gli autori di reati di violenza su donne, non è
previsto l’obbligo di rivolgersi a un centro per maltrattanti. Anche se di recente ho visto inserire nei provvedimenti di
allontanamento l’indicazione di rivolgersi ai servizi del territorio e ai
centri che lavorano con chi agisce violenza. E’ importante agire sulla figura
del maltrattante, per evitare che ricommetta violenza su un'altra donna.
Studi importanti dimostrano che uomini che fanno un percorso, in alta
percentuale, non hanno comportamenti recidivi. La violenza è sempre una
scelta, un modo per controllare la situazione, per mantenere il potere.
Ha ragione Sara: è una cosa difficile dare risposte efficaci
e tutelare le vittime, perché il percorso va costruito con tanti aspetti, e
vanno collegati tanti settori, con personale formato su questo ambito specifico
d'intervento. I servizi risentono della mancanza di volontà politica, aggravata dall'interminabile periodo di crisi: e così chi opera in questi contesti è oberato di lavoro, c'è
un problema cronico di sotto-organico e decade la motivazione: Come fai a
lavorare bene, avendo la calma di valutare, facendo le scelte giuste, se non
ne puoi più? Nel dirmi questo Sara si ritrae, abbassa il volto, come
se ammettere di non poter reggere ritmi e pressioni eccessive, fosse una
debolezza tutta sua, una colpa quella di voler essere sicuri di non sbagliare,
visto che comunque si parla di storie di vita e di morte.
In Italia e nel mondo si uccidono così tante donne da aver avuto bisogno di coniare un
termine linguistico dedicato: "femminicidio". Secondo Sara il problema è
culturale e a volte sono gli operatori per primi a subire ancora stereotipi.
C'è un problema disperato di sperequazione di potere. Da Biancaneve in
giù, noi siamo figure passive, che puliscono, al servizio degli altri, madri
accoglienti e pazienti che perdonano; ma non siamo perdonate.
Bisogna cambiare ottica; noi stesse, diventando più coscienti, possiamo diventare in grado di
reagire prima e di alimentare meglio una formazione culturale, anche all'interno della
coppia.
Dovremmo prevenire di più.
In questo momento si punta molto alla sensibilizzazione, soprattutto nelle scuole; ma non basta. Tra adolescenti è
purtroppo frequente che la ragazza si vesta come vuole il ragazzo, che accetti
acriticamente ogni sorta d’induzione, per com’è l'immagine della donna
veicolata dai media. Per loro è normale. Come per il ragazzo è normale dare
un'immagine di sé virile, forte, che non piange; non esprimendo l'emotività, si
sente stoico a sopportare, a non manifestare, e reprime. Ma tutto questo può
esplodere a volte anche attraverso la violenza.
Ognuno di noi ha le proprie responsabilità come genitore,
come insegnante, come educatore, come cittadino: la scuola è uno dei luoghi
privilegiati per preparare i ragazzi ad alzare la soglia critica nei
confronti di una società tanto complessa, per aiutarli a destrutturare
stereotipi, in particolare di genere. Anche nelle famiglie, è importante
risvegliare il senso di responsabilità educativa e soprattutto la voglia di
ascoltare i propri figli in modo attivo prestando attenzione ai loro bisogni,
imparando a leggere e a cogliere i loro segnali di aiuto. Non meno importante è
il ruolo che giocano le associazioni sportive, che anziché addestrare i
bambini fin dalla tenera età a una competizione sfrenata e fine a se stessa,
possono contribuire a diffondere la cultura del rispetto dell’altro delle
diversità, delle regole.
In tutti questi contesti, purtroppo a volte la violenza è
tollerata, non riconosciamo più cosa è violenza e cosa non lo è;spesso per
molti di noi l’offesa di un tifoso, una spinta tra bambini… sono comportamenti
accettabili. Tutto ciò non aiuta a prevenirla.
La vita di Sara sostiene un carico emotivo enorme, a seguito
del lavoro che svolge. Le chiedo ancora cosa è la violenza secondo lei, come
potremmo imparare a riconoscerla: Una volta la nostra formatrice ci ha detto che il suo
lavoro (si occupa di violenza da molti anni) la fa sentire privilegiata.
Ricordo che quest’affermazione mi colpì molto soprattutto perché allora non
capivo come facesse a sentirsi privilegiata. A distanza di tempo posso dire che faccio ancora un po' di
fatica e la mia mente spesso è occupata dalle storie di vita delle persone che
incontro ma, da quando mi occupo di violenza il mio modo di pensare e di vedere
le cose è cambiato è come se il mio sguardo riuscisse ad arrivare più in là.
Viviamo in un sistema basato sui giochi di potere, alimentiamo quindi un
modello violento e coercitivo. La violenza, così facendo, la mettiamo da tutte
le parti. E' un comportamento culturale che inevitabilmente mi
riguarda.
Questo sistema ora lo vedo e scelgo di non starci. Come?
Innanzitutto riconoscendo la violenza anche nelle sue forme più velate,
portando con me nella mia vita di tutti i giorni il mio sapere, la mia
esperienza e tutte le storie di vita che hanno contribuito al mio cambiamento.
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