martedì 29 giugno 2021

All you need is Jazz

Di Simonetta Ottone / Inverno 2020. E’ avvenuto un black out totale in me. La capitolazione di ogni certezza, anche della più elementare, ha prodotto in me un azzeramento di cose che amavo fare: non le facevo, non me le ricordavo più. Come ascoltare la musica. Tutto ciò che ascoltavo mi sembrava irreale, rispetto alla non realtà in cui ero stata catapultata. 


La musica che amo da decenni era nel giro di attimi diventata anacronistica, tesa verso un mondo che non c’era più. Era stato distrutto stupidamente, senza rumore, senza testimoni: fuori era tutto sparito, paesaggi desertici e disorientanti, anche nelle case sembrava non ci fosse nessuno. Nessuna esplosione aveva fatto finire il mondo per come l’avevo conosciuto e imparato fino ad allora, al contrario, tutto si ritraeva in dentro, senza tuttavia avere un centro di attrazione. Lentamente, ho cercato dei suoni che il mio orecchio potesse accettare come credibili, che mi risuonassero, che andassero a costituire la musica che non finisce mai. Così ho ritrovato il Jazz. La voce stanca, lacerante e meravigliosa di Billie Holiday cantava per me; le estensioni di Ella Fitzgerald mi “massaggiavano” l’anima, viaggiando con Charlie Parker, Louis Armstrong. Ma anche la contemporanea e compianta Amy Winehouse, fino ad arrivare al blues rauco di Tom Waits e all’elegante folk rock di Leonard Cohen. Il jazz nero, in particolare, ha aiutato me e le persone che accompagnavo a muovere i nostri corpi intorpiditi, indeboliti e doloranti, alieni, sopraffatti da un’angoscia collettiva implosa e profonda. Il ritmo, la fluidità, la sensualità, la leggerezza sofferta di artiste, prime tra tutte, che cantavano il jazz per cantare l’amore per la vita, così come è, nella nostalgia, nell’abbandono, ma sempre dentro una forza pulsante e inarrestabile. Parallelamente in video ero sollevata dal guardare ballerine di varietà e avanspettacolo, con le occhiaie ma sorridenti, con facce vere e corpi imperfetti; dopotutto ho iniziato a praticare danza guardando il varietà nazional popolare degli anni ’80, con Heather Parisi che sorrideva con 180 denti e aveva l’argento vivo addosso! In Liza Minnelli mi sono sfatta gli occhi, ma anche in Ginger Rogers e Fred Astaire; anche un po’ commossa dalla bravura puntuale della Rogers che diventerà inconsapevolmente la protagonista di un motto femminista efficace nello svelare la misoginia sofisticata di ciò che sarà chiamata la “sindrome di Ginger Rogers”, e che più o meno fa così: “Certo, Fred Astaire è stato grandioso, ma non dimenticare che Ginger Rogers ha fatto tutto ciò che faceva lui all’indietro e sui tacchi”. Ho pensato alle donne che ho conosciuto, stremate dall’andare tutta la vita e ovunque “all’indietro e sui tacchi”, a quanto hanno cercato sempre di ballare anche nelle giornate più cupe, donne affette dalla gioia di donare, innanzitutto sé stesse, agli altri e al mondo. Quello che dobbiamo ricostruire meglio di com’era, solare, ironico, consapevole, ospitale, perché nelle nostre danze è così, è il migliore dei mondi possibili. W IL VARIETA’!