giovedì 6 giugno 2019

"Vai Bela!" Vai Bella, pedala verso la libertà!

di Simonetta Ottone •  Quel giorno dovevo andare a lezione di danza; mio padre mi disse che sarebbe venuto a prendermi, avremmo mangiato qualcosa di veloce e saremmo andati a vedere una tappa del Giro d’Italia femminile, che passava da Firenze. Si trattava nientemeno del Giro d'Italia Femminile  Prima Edizione! Sulle strade che da Milano portano a Roma, attraverso 8 tappe e 764 chilometri. 
Era un giorno speciale, di quel Giugno del 1988. L’aria d’inizio estate, quella situazione d’attesa e quell’emozione che mio padre aveva deciso di condividere con me, hanno parlato chiaro, a posteriori. Passarono come delle furie, quelle donne in bicicletta. 
Veloci, i corpi possenti, sulle biciclette piegate rasoterra curvando il nostro Duomo. Feci a tempo a vedere i loro colori, a sentire l’aria che penetravano, spostavano violentemente in un attimo in cui l’errore di una avrebbe portato con sé il destino di tutte. Indomite e fugaci, sparirono subito, lasciandomi un po’ interrogativa, come alla fine di una danza che non dovrebbe finire mai. 
A casa nostra l’estate la televisione serviva per sentire il ciclismo. Non ho ricordo di trasmissioni di calcio, ma solo delle voci concitate degli speakers che raccontavano i grandi appuntamenti: il Giro d’Italia, innanzitutto, ma anche quello di Francia. 
Spesso mio padre va a vedere ancora oggi alcune tappe, perché il Giro d’Italia è una manifestazione piena di storia, di grandi gesti e speranze. Tra un allenamento e l’altro “babbo”, che a 80 anni si divide ancora quotidianamente tra canoa e bicicletta, mi ha raccontato di queste ragazze che vanno in bicicletta, pedalando lontano, dichiarando al mondo la loro autonomia di spostamento, andando a prendersi la loro libertà. 
Dunque ho pensato di farmi raccontare qualcosa e gli ho fatto delle domande, a Pier Luigi Ottone, che mi ha risposto per iscritto (non è un grande conversatore!), da buon ex cronista sportivo. Di seguito il suo racconto: 
 “Quella che segue è una miscellanea di annotazioni che ho raccolto senza uno scopo e senza un ordine logico. Sono solo delle notizie raccolte a destra e a sinistra, o memorizzate e successivamente approfondite, su un argomento, il ciclismo, che mi interessa particolarmente. Così ho notato, con sorpresa, quanto l'attività ciclistica non sia un esercizio prettamente maschile ma, fin dal suo nascere, fine Ottocento, viene praticato anche dalle donne. 
 Inizialmente poche magari, poche a precorrere i tempi, ma importantissime in quanto si sono imposte all'attenzione generale, della gente, della stampa e delle realtà sociali gettando le basi, in un mondo maschilista, di una diffusione che in poco tempo ha coinvolto l'universo femminile, soprattutto in Occidente. Le origini della bicicletta risalgono a più di 200 anni fa, al 1790. 
Nel 1816 la ruota anteriore venne resa sterzante ed il velocifero prese il nome di draisina, senza freni e senza pedali, per cui per mandare avanti la “macchina” bisognava continuare a scalciare con i piedi. Ma ormai il progetto, seppure rudimentale, di fornire l'uomo di un mezzo con cui muoversi in autonomia era nato, era da migliorare e perfezionare; così, a cascata, vennero i miglioramenti e gli accorgimenti tecnici. 
Nel 1861 alla ruota anteriore vennero applicati i pedali, e nacque il velocipede. Nel 1880 venne realizzato il sistema di trasmissione del movimento tra i pedali e la ruota posteriore tramite la catena e la “macchina” prese il nome di biciclo. Con la bicicletta le masse popolari iniziarono a muoversi, a spostarsi, a confrontarsi in competizioni, a divertirsi. Con la possibilità di trasferirsi rapidamente da un posto a un'altro, da un paese all'altro, si annullarono le distanze, aumentò la curiosità di vedere e di esplorare, e nacquero numerosi movimenti escursionistici e turistici soprattutto in Europa e nell'America del nord. 
Questa passione contagiò tutte le classi sociali, uomini e donne. In particolare queste ultime, dedicandosi ad una attività considerata maschile, sfidarono i pregiudizi dell'epoca e della gente e contribuirono decisamente all'emancipazione femminile. 
Susan B. Anthony, avvocata e suffragetta americana, nella seconda metà del 1800 lottò con accanimento per l'emancipazione delle donne e per la conquista dei loro diritti sia sul lavoro che in altri temi sociali; nel 1849 fondò l'associazione nazionale americana per il suffragio femminile. Nel corso di un convegno ebbe a dire: “lasciate che vi dica cosa penso dell'andare in bicicletta. Penso che la bici abbia fatto per l'emancipazione della donna più di ogni altra cosa al mondo. Da alle donne la sensazione di libertà, di emancipazione, garantendo la possibilità di muoversi al di fuori dei rigidi confini della propria dimora e lontano dal severo controllo degli sguardi altrui”. 
Altro grande personaggio e punto di riferimento del mondo femminile, fu Anne Londonderry Kopchossky; moglie e madre di tre figli fu, nel 1894, la prima donna acompiere il giro del mondo in bicicletta

Lo fece in quindici mesi e lo fece per scommessa. Nel 1884 l'aveva fatto Thomas Stevens, un uomo quindi, e l'opinione corrente era che una donna non ne sarebbe mai stata capace in quanto fisicamente inadatta ed incapace di affrontare pericoli ed avversità. 
Nacque un giro di scommesse, Anne trovò uno sponsor che per 100 dollari scrisse il nome della propria ditta sulla bicicletta e partì da Boston con i 100 dollari in tasca e qualche vestito nella borsa insieme ad una rivoltella, non si sa mai. Anne partì salutata da una moltitudine di persone, in questa moltitudine non c'era suo marito. 
Come detto partì da Boston, arrivò in Cina, a Singapore, a Gerusalemme e in una infinità di altre località. Ovunque veniva accolta e seguita per la strada da centinaia di ammiratori; la gonna lunga la impacciava, e lei se ne liberò e indossò i pantaloncini, per l'epoca una trasgressione inaudita. 
Concluse il suo viaggio a Boston, accolta trionfalmente, abbattendo ogni barriera di pregiudizio: era forte come un uomo, coraggiosa più di un uomo, per di più con le cosce all'aria. 
Fu una rivoluzione culturale, la rottura di ogni convenzione. 
In Europa, nel 1898, Emile Zola scrisse che la bicicletta era "lo strumento che azzerava la differenza fra i sessi", in tal senso ha avuto un ruolo fondamentale nella emancipazione femminile. 
Facciamo un salto di circa 150 anni per ritornare al presente, ai giorni nostri e ad una storia di secondaria importanza ma, nel suo piccolo, assai emblematica e parliamo di Admiral al Turkistam. E' una ragazza musulmana, che è andata a completare gli studi universitari a Boston (ancora Boston come prima!) dopo di che rientra al suo paese: l'Arabia Saudita. Ha 22 anni, è una ragazza come tante, e come tante ha una passione, la bicicletta. 
Siamo nel 2015, ma siamo anche in un paese integralista dove alle donne non è permesso prendersi libertà. Nonostante l'avversità dell'ambiente, degli amici e dei parenti, Admiral al Turkistan va in giro da sola con la sua bicicletta. Suscita curiosità e scandalo, ma è anche di esempio per tante altre ragazze come lei; insomma qualcosa ha mosso intorno a sé e tante altre giovani si uniscono a lei, salgono in bici e con questa vanno a scuola, a lavorare, in gita pur rispettando le limitazioni imposte all'abbigliamento, che deve essere quello tradizionale. 
E spostiamoci in un altro paese mussulmano: l'Afghanistan dove l'emancipazione femminile è un processo lento e lungo, fortunatamente aiutato dallo sport con i suoi regolamenti e impegni internazionali. Fino a pochi anni fa la pratica dello sport era esclusivamente maschile, ma solo recentemente anche le donne hanno potuto accedere alle varie federazioni nazionali: nel 2007 al calcio, nel 2010 al cricket, nel 2007 al basket, e così via, seppur con attenzione alla loro cultura: le calciatrici indossano durante le partite una maglia con una specie di cappuccio aderente, che funge da velo. Solo nel 2015 una donna afghana ha potuto correre la maratona, si chiama Zainab, ha 25 anni ed è stata la prima donna afghana a poterlo fare; la manifestazione si correva in Afghanistan e lei era l'unica partecipante femmina. 
Pochi anni prima è nata una bella storia ad opera di Shannon Galpin, una attivista americana, nata nel 1974, promotrice nel 2006 in Afghanistan del movimento Afghan Cicles; questo si rivolge alle donne afghane di 20-30 anni che in famiglia hanno ricevuto violenze e maltrattamenti. 
La promotrice americana vuole insegnare alle ragazze ad andare in bici, le tecniche del ciclismo e far loro apprezzare il senso di libertà che dà la bicicletta il cui uso è, o era, vietato in Afghanistan alle donne, soprattutto per resistenze culturali.   
Per le cicliste la vita è dura, l'ostilità è totale, in allenamento vengono per così dire lapidate, fatte oggetto di aggressioni sia fisiche che verbali, le loro famiglie minacciate. Ma non demordono e la Shannon Galpin divulga all'estero la sua iniziativa trovando consensi e collaborazione in diversi paesi che organizzano raduni ciclistici a favore delle ragazze afghane. 
In Italia l'ex ciclista professionista Andrea Ferrigato indice un raduno amatoriale nel Veneto a loro sostegno. E le cicliste afghane pedalano e pedalano fra un sasso e un insulto, ma riescono a fare nascere ufficialmente la nazionale afghana femminile che si comporta decorosamente nelle gare e ottiene riconoscimenti in Corea, Pakistan, Kazakistan, Bangladesh; ora ha per obiettivo di andare alle olimpiadi di Tokio del 2020. 
Due belle storie italiane: naturalmente nei paesi occidentali lo sport femminile è praticato da moltissimi anni, fin dalle olimpiadi di Parigi del 1908 anche se non ufficialmente, e da quelle di Stoccolma del 1920 ufficialmente. 
Anche corse particolarmente impegnative come il Giro d'Italia ed il Giro di Francia si sono aperte alla partecipazione femminile sia pure su percorsi più brevi ed in un minore numero di tappe rispetto ai maschi. La prima edizione del Giro d'Italia femminile risale al 1988, del Giro di Francia al 1984 dopo una prima edizione nel 1955 seguita da una sospensione di trenta anni. Moltissime sono le cicliste italiane e straniere che si sono messe in luce ma mi piace ricordarne due italiane, Alfonsina Strada e Maria Canins. 
Alfonsina Strada (1891/1959) è ritenuta fra le pioniere della parificazione fra maschi e femmine nello sport e un esempio di emancipazione delle donne anche al di fuori dello sport.

E' stata una formidabile ciclista, nata a Castelfranco Emilia da una coppia di braccianti, una dei dieci figli messi al mondo. Nel 1901 il babbo portò a casa una bicicletta, anzi più che una bicicletta un rottame di bicicletta. Alfonsina se ne innamorò e se ne impossessò pedalando furiosamente per le campagne. Sorpassava con facilità i ciclisti uomini che incontrava e a quattordici anni partecipò di nascosto ai genitori alle prime gare, in casa diceva che sarebbe andata a messa. Le bugie però hanno le gambe corte e la mamma la scoprì. Le disse che se voleva continuare a correre avrebbe dovuto sposarsi e andare via di casa, Alfonsina così fece e a 14 anni si sposò, per regalo di nozze chiese e ottenne una bicicletta e suo marito divenne il suo primo tifoso e preparatore atletico. Si trasferì a Torino e iniziò a gareggiare sia su strada che su pista, in Italia e in Francia. Era forte e cercava altre esperienze così nel 1917 chiese e ottenne il permesso di partecipare al Giro di Lombardia, gara esclusivamente maschile su un tracciato molto severo. Partirono in 43, ovviamente lei unica donna, che si classificò in 23esima posizione. Vi partecipò nuovamente nel 1918 giungendo 21esima su 49 partecipanti. Nel 1924 ebbe il permesso di partecipare fra mille polemiche al Giro d'Italia, gara a tappe esclusivamente maschile ma un regolamento imperfetto glielo consentiva. Gli organizzatori pensarono di schivare la tempesta iscrivendola come Alfonsin Strada, ma ben presto dovettero specificare che non era Alfonsin ma Alfonsina suscitando un vespaio di critiche e ironia, ma anche curiosità richiamando lungo le strade della corsa tanta gente venuta a vedere la suffragetta. In una delle prime tappe giunse fuori tempo massimo a causa di numerosi incidenti tecnici che ne rallentarono l'andatura. Riconoscendo questi problemi nei quali era incorsa l'Alfonsina, ma soprattutto riconoscendone il valore ed il coraggio, la giuria non la squalificò escludendola dalla gara ma le permise di continuare la medesima fuori classifica. Concluse il giro onorevolmente e fu fra i 30 concorrenti che lo terminarono su 108 iscritti. In un'epoca in cui la parità fra uomo e donna era ancora lontana, Alfonsina fu un esempio altissimo per tutte le donne e per il regime improntato al più aperto maschilismo. 
Passano gli anni e il movimento ciclistico femminile, sia amatoriale che agonistico, dilaga notevolmente con molte atlete italiane che si mettono in bella evidenza. Fra tutte mi piace ricordare un delicato e simpatico episodio di Maria Canins, ciclista trentina nata nel 1949 a Badia che ha un palmares lungo un metro; fra le vittorie più importanti un Giro d'Italia, due di Francia, ovviamente riservati alle donne, nonché medaglie ai campionati del mondo e alle Olimpiadi, ed ha concluso la carriera nel 1995 ricevendo la più alta onoreficienza al merito sportivo. In salita andava come una moto e nessuna avversaria riusciva a starle dietro, ma in discesa era una frana, sbagliava tutte le traiettorie in curva, e dovendo rallentare perdeva il vantaggio accumulato in salita. Il marito, trentino anche lui, era il suo primo supporter, il suo preparatore ed il suo manager. Conscio delle lacune della moglie in discesa, decise di aiutarla nei limiti in cui poteva farlo. Quindi pensò di indicarle, curva dopo curva, la direzione e la traiettoria giuste da seguire al momento di impostare la curva. Così la notte che precedeva la tappa di montagna, con salite lunghe e discese insidiose, il marito si muniva di un secchio di tinta bianca e di pennello, e, curva dopo curva, disegnava sulla strada la freccia dalla parte giusta ove affrontare il tornante seguendo la quale indicazione, Maria non avrebbe né sbagliato né rallentato. Difatti la ciclista scendendo individuava la freccia bianca disegnata dal marito e con sicurezza impostava la curva, senza dovere rallentare. 
Quando poi la discesa era finita, accanto alla freccia che indicava l'ultima curva, il marito scriveva “vai bela”, l'equivalente veneto di “vai bella!”. Maria sapeva che da quel momento in poi non ci sarebbero state più curve, perciò poteva dare gas al massimo e involarsi verso il traguardo".