venerdì 12 dicembre 2014

Convenzione di Istanbul: l'Italia è pronta?

di Simonetta Ottone • In occasione del 25 Novembre sono stati organizzati dal Consiglio Regionale della Toscana due bei convegni, di cui uno sulla Convenzione di Istanbul. Numerosi gli ospiti, ognuno dei quali ha fornito un punto di vista utile a inquadrare una questione complessa che suggerisce riflessioni di ampio raggio. Mi rifiuto di parlare di violenza di genere (solo) in termini numerici. Ovunque vengono pronunciati numeri inimmaginabili, che hanno solo il suono di parole.
Il 2013 ha visto cifre intollerabili, il 2014 solo lievemente inferiori. Più di 100, in questo anno in Italia, i bambini resi orfani di madre, dai loro stessi padri. E, ogni volta, non ci indigniamo mai abbastanza: alcuni giornali dichiarano di ricevere più proteste e richieste di chiarimenti quando pubblicano notizie di violenza su animali, che su donne.


Nell'Italia della sperquazione dei poteri, la Violenza si riproduce in ogni forma. Il potere dei datori di lavoro aumenta? E così aumentano le molestie sessuali in ambito lavorativo e non sempre la risposta legislativa calza sul mondo reale del lavoro (la lacuna normativa sul mobbing, che colpisce maggiormente la grande impresa, rimane una lacuna insopportabile).
Nonostante una donna uccisa tra le pareti domestiche ogni 2,5 giorni ormai da anni, ancora non c'è una raccolta sistematica di dati che possa fornire correlazioni tra una particolare donna e un particolare uomo, che possa accedere a atti processuali, nel tentativo di dare risposte tempestive a persone violate e prevenirne altre.
"Gli autori di questo tipo di reati, d'altra parte, non rientrano in nessun profilo esistente, né psicologico, né criminologico. Buona parte di ciò che dobbiamo affrontare in questo ambito, ci è ignoto. Ecco perché la politica deve costituire un'Agenzia Nazionale contro la violenza sulle donne", dice Fabio Roia, Magistrato del Tribunale di Milano.
I maltrattanti siamo noi, la gente comune, non incensurati, sono professionisti affermati che si trasformano tra le mura domestiche. Parlare di mostri o di "raptus" (fenomeno pare inesistente anche da un punto di vista psichiatrico), è ostinarsi a non misurarsi con la realtà.
E continua, Roia: "I fatti ci confermano che si parla di un fenomeno che ha una sua specificità: le donne vengono ammazzate perché c'è un'errata valutazione del rischio. Va capito dove si trova il nodo, in che punto ci arrestiamo o torniamo indietro".
Dal momento che una donna narra il fatto, parla di relazioni malate per gelosia o separazione, o per l'affidamento dei figli, deve essere fatta correttamente un'analisi del rischio, sapere quanto questa donna sia esposta o no, se sia necessario l'allontanamento. E allora mi domando: che succede dopo che la donna querela, fa un'azione chiara? Se la mediazione è rischiosa e non da percorrere, siamo però in grado di prendere una donna in carico a 360°?
I dati accennati dal Magistrato dicono che il 77% dei medici di base, il 69% di chi opera nel Pronto Soccorso, il 55% di chi è impegnato in strutture pubbliche, non hanno sentore di trovarsi di fronte alla violenza sulla donna. E la disgregazione sociale, l'assenza di contenimento sociale, accentuano la solitudine della maltrattata.
Se è vero che la soluzione non sta solo nelle aule giudiziarie, siamo pronti sul piano culturale? E quale è la cultura giudiziaria di riferimento? Non sempre i magistrati che giudicano questo tipo di casi sono specializzati in questo ambito specifico. Di fronte a processi recentemente svoltisi in Italia, assistiamo sovente a sentenze paradossali. Come nel caso di uno stupro in cui gli atti processuali dichiaravano che la disparità tra i due non era così forte, perché lei semincosciente (per abuso d'alcol) e lui più giovane di 20 anni. Siamo sicuri che chi giudica conosca tutte quelle scienze complementari necessarie a valutare un ambito così delicato e particolare? E gli avvocati che assistono le vittime sono preparati a far crescere il processo non con elementi effimeri di fronte al giudice? E visto che di solito l'autore del reato vuole sfidare la donna anche in ambito processuale, cosa facciamo in presenza di situazioni che portano alla "vittimizzazione secondaria" stabilita dalla Convenzione di Istanbul, come nel caso di donne che nel processo devono parlare di violenze subite non solo davanti a tutti, ma avendo in faccia il loro aggressore?
Perché in un processo i diritti del deputato non devono superare la tutela e il diritto alla salute della vittima, e in certi casi, come grazie a questa Convenzione la Legge c'è, ma tutti quanti la dobbiamo realizzare, visto che allargare l'interpretazione alla luce della Convenzione è diventata la Legge dello Stato Italiano.
Una Legge molto, molto avanzata per noi, che ci obbliga a fare passi davvero grandi.

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