sabato 20 agosto 2016

Avete mai indossato un burqa?

di Simonetta Ottone • Una sera di settembre del 2002: presento lo spettacolo Vendute, nel bellissimo Castello di Piombino (Livorno). Sono ancora più emozionata, perché verrà a vederci una ragazza resistente afghana, che si trova in Italia in semiclandestinità (facendo parte dell'organizzazione combattenti RAWA), con Donne in Nero, per parlare della condizione della donna nell'Afghanistan dei mujahidin e dei taleban. 


Questa piccola ragazza (allora poco più che ventenne), era la protagonista del libro vincitore in quegli anni del Premio Viareggio per la Narrativa: Zoya, la mia storia, di J. Follain e R. Cristofaro.


Il TeatroDanza dello spettacolo, con momenti parlati in italiano, speravo non escludesse Zoya dalla comprensione: io danzavo una storia vera; la prigionia di ragazzine occidentali vendute dai loro padri yemeniti, danzavo sulla pietra del castello, lei era lì davanti a me in prima fila.

Era difficile e imbarazzante recitare cose che probabilmente lei aveva vissuto.
Il tempo si fermò, c'erano solo i nostri movimenti, le nostre parole, una storia di odio e oppressione delle donne da parte di una visione integralista dell’Islam. Forti le percussioni dei musicisti sembravano colpire i nostri corpi. Ero tanto stanca quel giorno, in modo così forte, e i salti erano difficili sulla pietra dura: seppi poi che ero alle prime settimane di gravidanza e quella fu per diversi mesi l’ultima replica.

Lo spettacolo finì nel silenzio totale. Come per rompere il ghiaccio, partì un applauso forte ma non rumoroso, sobrio e lungo. Chiamarono con noi Zoya, che timidamente si avvicinò. Ci sorridemmo così tanto, fino a ritrovarci abbracciate, sotto uno scroscio di applausi, lei piccola e magra, io sudata e caldissima.
Le chiesi in inglese se aveva potuto seguire le nostre parole italiane, lei mi disse: non capivo l'italiano, ma ho capito tutto.
Stavamo ancora abbracciate, avrei voluto portarla via, nasconderla in casa, non farla tornare più in quel paese. Lei mi ripeteva  nell’orecchio, commossa thank you, thank you, thank you so much, to you, Simonetta... 

Avete mai indossato un burqa? 
Io sì, quello azzurro grigio afghano di Zoya. Lei mi chiedeva piano, da fuori: How do you feel? Era pesante, ruvido, odoroso, ci inciampavo, vedevo attraverso una retina rettangolare davanti agli occhi. Vedevo un’immagine frammentata, attraverso piccoli buchi. Non vedevo ai lati, era difficilissimo anche solo camminare. Era di una stoffa grossa e caldissima, soffocante.
Non esisti, lì' dentro.
Non esisti dove non c’è aria, dove non vedi bene, non ti puoi muovere, sei isolata e separata dal mondo fuori.
Sei invisibile; e il mondo stesso è in buona parte celato ai tuoi occhi.
Non fui paziente, lo tenni pochissimo, Zoya mi aiutò a levarlo. Quando fui libera, fradicia di sudore  e spettinata, ci guardammo con le lacrime agli occhi.
Poche le donne presenti che accettarono di provarlo. Provai vergogna, perché io me lo ero levato velocemente, e non l'avrei più messo; Zoya doveva tornare in Afghanistan e lo doveva rimettere.

Io ero libera, lei no.

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